La responsabilità “contrattuale” del curatore fallimentare per mala gestio del patrimonio

Con la sentenza n. 13597/2020, depositata in data 2 luglio 2020, la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione ha ribadito la natura contrattuale dell’azione di responsabilità che il curatore in carica può esperire avverso il curatore fallimentare revocato, ai sensi dell’art. 38 l. fall., allineandosi così ad un consolidato orientamento giurisprudenziale. E ciò, precisa la Corte, in ragione della natura del rapporto giuridico instaurato dal curatore, al momento della nomina, con la procedura fallimentare, nonché in ragione della violazione degli obblighi posti a suo carico dalla legge.

La vexata quaestio relativa alla natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità del curatore fallimentare si incentra sulla difficoltà (soprattutto qualora si voglia aderire alla tesi di matrice contrattualistica) di interpretare la fonte del rapporto giuridico insorto tra le parti, ossia il curatore e il fallimento. Invero, qualora la nomina del curatore da parte del Tribunale (e la conseguente accettazione dell’incarico da parte del curatore) venisse analizzata in chiave squisitamente processualistica, si giungerebbe alla conclusione per cui il rapporto tra il fallimento e il curatore – il quale, in questa prospettiva, assumerebbe in prevalenza il ruolo di “ausiliario” dell’autorità giudiziaria, investito di una funzione pubblica – esuli da qualsivoglia rapporto contrattuale, con conseguente assimilazione della responsabilità ex art. 38 l. fall. a quella aquiliana di cui all’art. 2043 c.c.

Con la sentenza n. 13597/2020, la Prima Sezione Civile ha, invece, ribadito, conformemente a quanto statuito in passato dalle Sezioni Unite, che la responsabilità ai sensi dell’art. 1218 c.c., può definirsi contrattuale non solo qualora l’obbligo di prestazione derivi propriamente da un contratto, ma anche in ogni altra ipotesi in cui essa dipenda dall’inesatto adempimento di un’obbligazione preesistente, quale che ne sia la fonte, potendo discendere anche dalla violazione di obblighi nascenti da situazioni di “contatto sociale”, ogni qual volta l’ordinamento imponga ad un soggetto di tenere, in tali situazioni, un determinato comportamento. In altri termini, secondo la Corte, “la distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale sta essenzialmente nel fatto che quest’ultima consegue dalla violazione di un dovere primario di non ledere ingiustamente la sfera di interessi altrui, onde essa nasce con la stessa obbligazione risarcitoria, laddove quella contrattuale presuppone l’inadempimento di uno specifico obbligo giuridico già preesistente e volontariamente assunto nei confronti di un determinato soggetto (o di una determinata cerchia di soggetti)”.

Ciò considerato, se fino alla riforma del 2006, il curatore, quale mero ausiliario dell’autorità giudiziaria, poteva essere chiamato a rispondere solo a titolo di responsabilità extracontrattuale, al contrario, dopo la novella – che ha reso il curatore un soggetto con potere di iniziativa nella conduzione delle operazioni fallimentari e non più un semplice esecutore della volontà del giudice delegato -, si è ritenuto che in capo al curatore potesse piuttosto sussistere una responsabilità di tipo contrattuale, che trova il proprio fondamento nel rapporto (appunto di natura contrattuale) scaturente dalla sua nomina (riconducibile, secondo una parte della giurisprudenza di merito, al contratto di mandato ex art. 1703 c.c.) e derivante, in base a quanto stabilito espressamente dal legislatore, non solo dalla mancata diligenza nell’adempiere i propri doveri d’ufficio, ma anche dalla violazione degli adempimenti previsti dal piano di liquidazione approvato dal comitato dei creditori (così art. 38 l. fall.).

Secondo la Prima Sezione della Suprema Corte, depone altresì in favore della natura contrattuale della responsabilità del curatore anche la nuova formulazione dell’art. 38 l. fall. che, a differenza della impostazione ante riforma (secondo la quale il curatore doveva “adempiere con diligenza ai doveri del proprio ufficio”), dispone che “il curatore adempie ai doveri del proprio ufficio (…) con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico”, cosicché il passaggio dal paradigma dell’art. 1176, comma 1, c.c. (per cui “nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia”) a quello del comma 2 (per cui “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”) costituisce una conferma della natura contrattuale della responsabilità, cui è infatti connaturata la diligenza professionale. Ciò significa, riporta la Corte, che dal curatore si pretende non già un livello medio di attenzione e prudenza, ma la diligenza correlata alla perizia richiesta dall’incarico professionale, secondo specifici parametri tecnici.

s.tammarazio@giantinigianfaldoni.it

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